Focus sul trauma
Gregorio Tugnoli, 25 anni di chirurgia del trauma: un bilancio
"In Chirurgia del Trauma ho avuto modo di praticare quasi tutti gli interventi possibili sia in torace sia in addome, cosa che non sempre capita nelle nostre esperienze professionali"
Ormai 14 anni fa, insieme al mio Maestro il Dr. Franco Baldoni, pubblicammo un articolo sulla rivista della Società Italiana di Chirurgia d'Urgenza e del Trauma dal titolo: "Che cos'è un Trauma Center. 1989-2009: bilancio dell'ultimo anno ed alcune considerazioni su 20 anni di attività" (Ann. Ital. Chir, 2010,81:65-689). Nell'articolo ripercorrevamo la storia di come presso l'Ospedale Maggiore di Bologna si era creata prima in modo entusiasticamente volontario e - successivamente - su mandato Regionale, una struttura organizzata per l'assistenza al paziente traumatizzato e di come certe scelte avessero favorito l'esperienza e la coesione dei professionisti coinvolti tanto da creare un unicum del tutto peculiare rispetto ad altre realtà e di come questo avesse modificato i nostri atteggiamenti e favorito l'out come dei nostri pazienti.
Forse allora, nonostante lavorassi già "a tempo pieno" da più di 10 anni in una Chirurgia d'Urgenza e del Trauma, non riuscivo a rendermi esattamente conto di quanto questa attività potesse influenzare il mio futuro lavorativo. Infatti, pochi mesi dopo aver scritto l'articolo, sono diventato il responsabile della U.O.S.D. di Chirurgia del Trauma, ruolo che ho ricoperto per 13 anni fino a che non è iniziata una nuova avventura, e che rappresenta sicuramente il core di tutta la mia vita lavorativa.
Che tempi erano?
Era il tempo in cui si è andato sempre più affermando il ruolo del trattamento non-operatorio dei parenchimi, un ambito in cui ci siamo spinti - a volte con una buona dose di coraggio (e di incoscienza?) - oltre limiti che solo pochi anni prima erano impensabili ma, nello stesso tempo era il periodo in cui abbiamo approfondito il tema della Damage Control Surgery ricevendone notevoli soddisfazioni sia in ambito puramente clinico che scientifico. Ma, soprattutto, era il tempo in cui non ci si fermava mai e allora abbiamo definito quello che abbiamo chiamato "Protocollo di accesso diretto alla sala operatoria" grazie al quale il trauma grave, emodinamicamente instabile, veniva portato direttamente al tavolo operatorio sulla base di assenza di altre fonti di sanguinamento evidenti e (a volte) con il solo conforto di una ecografia fatta sulla scena: questo ci ha obbligato ad agire uscendo da qualsiasi schema e di adattare ancora di più la nostra attività alle situazioni presenti. Ma abbiamo anche cercato di uscire da quella che era la nostra "comfort zone" sia utilizzando il packing pelvico pre-peritoneale nelle gravi fratture di bacino sia ricominciando (dopo un precedente periodo gravato solo da insuccessi) a praticare la toracotomia d'emergenza in E.R. In entrambi i casi posso affermare che si tratta di due sfide che abbiamo vinto sia perché ci hanno permesso di arricchire la nostra capacità chirurgica in "territori" a cui un chirurgo generale non è abituato sia per i risultati ottenuti. La toracotomia d'emergenza, forse più del packing pelvico pre-peritoneale presto soppiantato dal REBOA, ci ha costretti a prendere decisioni ancora più rapide di quanto già non fossimo abituati e di operare scelte in termini di attività (in sala di emergenza, con una dotazione minima), di approccio chirurgico (la nostra scelta è la toracotomia clamshell), e, soprattutto, di indicazioni. Abbiamo deciso di provarci comunque e provarci sempre: quando, ad esempio, la giovane età del paziente lo richiedeva o anche quando era passato un po' più di tempo da quelle che sono le indicazioni di Letteratura, consci che anche la sola ripresa del battito cardiaco avrebbe potuto portare alla donazione che riteniamo essere un out come comunque accettabile. Abbiamo anche cercato di "adattarci" al cambiare dei tempi e della tecnologia, utilizzando tecniche mininvasive anche in Chirurgia del Trauma.
E in questa attività "schizofrenica" che ci porta da un lato a frenare al massimo l'aggressività e la nostra ansia per consentire il trattamento non operatorio di lesioni parenchimali di grado elevato e che, dall'altro, ci obbliga ad intervenire spesso senza aver il tempo di un adeguato lavaggio delle mani o della preparazione formale del campo operatorio, abbiamo passato anni "in reperibilità", esaltanti a volte, molto tristi in altre occasioni.
Non posso nascondere che a fronte di successi insperati, il ricordo dei tanti che non siamo riusciti a salvare pesa su queste considerazioni e lascia una traccia di tristezza che è difficile da dimenticare.
Allora, che bilancio posso fare di 25 anni trascorsi ad occuparmi di Chirurgia del Trauma?
Fallimentare? Probabilmente. Se ci pensiamo, la "Chirurgia del Trauma" non esiste: non è riconosciuta, ed è presente in modo variegato solo in poche realtà; questo - se vogliamo pensare alla "carriera" è un limite importante. Un altro limite è comunque la notevole riduzione della attività strettamente chirurgica e la quasi impossibilità di acquisire esperienza con le nuove, sempre più presenti, tecnologie. Ho lasciato per ultima la "qualità di vita": turni, reperibilità, stress, insuccessi, burn-out sono i compagni di viaggio che non mi hanno mai abbandonato: se non avessi avuto l'appoggio della mia famiglia questo sarebbe stato impossibile.
O positivo? Certo, Positivo! In Chirurgia del Trauma ho avuto modo di praticare quasi tutti gli interventi possibili sia in torace sia in addome, cosa che non sempre capita nelle nostre esperienze professionali; ma, soprattutto, ho avuto la possibilità di lavorare a strettissimo contatto con tanti altri professionisti come Rianimatori, Radiologi, Radiologici Interventisti, Medici dell'Emergenza e del 118, colleghi di molte altre branche che si occupano di patologia traumatica da cui ho potuto acquisire esperienza e conoscenza e, non per ultimo, con il personale assistenziale senza il quale tutta la nostra attività sarebbe impossibile. E questo ha portato a lavorare in team, per il paziente, sviluppando intensa stima e fiducia reciproca, sentimenti che spesso nel nostro mondo mancano. Ma non solo, in questi anni ho avuto modo di conoscere tanti colleghi al di fuori del mio Ospedale che condividono con me questa "passione" e con i quali si è instaurato fin da subito un rapporto di affetto ed amicizia: e anche questo è raro nel nostro mondo.
Per concludere, ll lavoro che ho citato all'inizio di queste riflessioni rispondendo alla domanda "Cos'è un Trauma Center", terminava così: "…soprattutto un gruppo unito, fondato sul nostro passato e su una stessa identità culturale". Ecco, se devo fare un bilancio, sono estremamente orgoglioso di aver potuto far parte di questo gruppo.
Gregorio Tugnoli, Direttore U.O.C. Chirurgia d'Urgenza A.O. Parma